All the Invisible Children (2005)

Che cos’hanno in comune i cortometraggi creati da registi da sette paesi differenti? In All the invisible children il filo conduttore è l’infanzia, l’infanzia rubata a dei bambini qualsiasi, che tutto ad un tratto si sono dovuti fare forti per affrontare la vita e le disgrazie che sono capitate loro.

 Fin dalla prima storia, forse la più crudele, troviamo una delle più tristi realtà a questo mondo, i bambini soldato in Africa. Ma i problemi non finiscono qua, e passando da un episodio all’altro troviamo tutte quelle piaghe che colpiscono le creature più deboli del genere umano: la diffusione dell’AIDS nei sobborghi di Brooklyn, il degrado sociale nella periferia di Napoli, e la povertà dilagante nelle strade di San Paolo. Questi solo alcuni degli argomenti trattati da ben sette registi differenti, apparentemente ognuno slegato dall’altro, uniti però dallo sforzo di Chiara Tilesi e Stefano Veneruso (anche regista di uno dei cortometraggi) che per ben quattro anni hanno cercato di organizzare questo ambizioso progetto con la collaborazione di Rai Cinema e della MK Films Productions, i cui proventi sono stati completamente devoluti in beneficenza all’Unicef e alla FAO, il programma alimentare mondiale. La cosa più affascinante di questo film è il vario e complesso punto di vista dei registi che hanno confezionato sette storie, ognuna con un contesto ed un background particolare, nella maggior parte dei casi riconducibile all’infanzia degli stessi registi. Abbiamo una Napoli degradata e piena di delinquenza in “Ciro”, per il corto del regista italiano Veneruso, la Cina in via di sviluppo dove ricchezza e povertà vivono a pochi isolati di distanza nell’episodio proposto dal cinese John WooSong Song and Little Cat”. Ed infine, forse l’episodio che più mi ha colpito, la caotica megalopoli di San Paolo in Brasile dove Bilu e Joao, i protagonisti dell’episodio firmato dall’emergente Katia Lund, trasportano il loro carretto con cui raccolgono le lattine gettate per riciclarle e guadagnarci qualche spicciolo.
Un film che sa emozionare per tutta la sua durata, grazie anche ad una stupenda colonna sonora, varia come la provenienza dei sette registi: le musiche gitane che accompagnano la fuga di Uro, un piccolo gitano nel episodio “Blue Gypsy”, i Bunghete Banghete napoletani che percuotono ogni oggetto che gli capiti sotto mano nell’episodio “Ciro” e le stupende armonie brasiliane che accompagnano i due bambini Bilu e Joao. Un film che consiglio di vedere, per l’ampio panorama che offre su realtà di cui troppo spesso ci dimentichiamo e per assaporare un nuovo tipo di regia che conosciamo poco, che si sostituisce piacevolmente alle ormai straconosciute regie “patinate” che Hollywood ci offre ormai da decenni: effetti speciali, cast da premio oscar e tanta, tanta pubblicità. Un prodotto quindi che merita a pieno la nostra attenzione, ed i nostri soldi, visto che questi andranno a finanziare importanti progetti di associazioni come l’Unicef e la FAO che da anni aiutano proprio quei paesi descritti in questo film, quei paesi che hanno bisogno del nostro aiuto.
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